sabato 17 dicembre 2011

La Capela de Casa Grande di Luanda come l’isola di Goré in Senegal: i punti di raccolta degli schiavi


 Luanda – 17 DIC. Fra il 1500 e il 1870 il 37% degli africani trasportati in Nord America come schiavi erano angolani. Visto dall’Africa questo sporco commercio appare ancora più inaccettabile di quanto non lo sia letto sui libri di storia.
Pochi chilometri a Sud di Luanda, sul Morro da Cruz, di fronte alla penisola di Mussulo, si erge un’antica palazzina bianca, la Capela de Casa Grande, costruita nel 17simo secolo.
E’ una modesta costruzione che oggi ospita il Museo degli Schiavi. Due stanze spoglie. Dentro qualche foto e disegno dell’epoca, una catena, un peso da applicare ai piedi per impedire allo schiavo di fuggire. Fuori un cannone portoghese, un battistero in pietra, una vista sull’Oceano Atlantico che  al tramonto lascia senza fiato.
Questo è l’esatto punto in cui venivano imbarcati migliaia di uomini e donne destinati per lo più alle piantagioni brasiliane e nordamericane fino al 1858, anno in cui il commercio degli schiavi è stato abolito in Angola.
E’ la seconda volta nella mia vita in cui mi ritrovo in un punto di raccolta degli schiavi. La prima è stata in Senegal, sull’isola di Goré, di fronte a Dakar.
La sensazione è sempre la stessa. Luoghi che dovrebbero essere ricordati con tanto di monumenti e targhe, per non dimenticare lo scempio del passato, come monito perché il futuro non riservi al mondo altre vergogne simili, stanno invece lì, in modo modesto, dimesso, quasi nascosto.
Cos’è che impedisce al mondo di fare di quei luoghi un punto di riferimento,  di pellegrinaggio, di scoperta? La vergogna? 
Forse la vergogna di tutti. Quella dei discendenti degli schiavisti per lo sporco traffico in cu si sono invischiati. Quella degli schiavizzati per l’incapacità di opporsi con la dovuta forza a un destino che non era scritto da nessuna parte dovesse essere quello.

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