17 Aprile 6.30 am, partenza da Luanda, destinazione Lubango,
km 1150.
In Africa ciò che conta non è arrivare, è viaggiare. Andare
da un punto a un altro scoprendo cosa c’è in mezzo. Gli spazi sono sconfinati e
i paesaggi variano da zona a zona. Quando si arriva si sente subito il bisogno
di ripartire, per continuare, perché qui c’è sempre un oltre da percorrere.
Decidiamo di andare da Luanda al Namibe, giù nel desertico Sud
dell’Angola, passando per alcune cittadine e arrivando più in alto che
possiamo, sul Planalto central e più a sud, fino alle zone aride della
provincia di Namibe, al confine con la Namibia.
Le nostre mete sono varie. Passeremo sulla
Fenda da Tundavala, dove milioni di anni fa il continente americano si è
staccato da quello africano. Percorreremo la Serra da Leba, la tortuosa strada che scende
da 2000 a 1000 m dove finisce l’altopiano centrale dell’Angola, considerato
uno dei luoghi più scenografici del Paese. Incontreremo le popolazioni Hiba, che vivono ancora come
migliaia di anni fa, dove le donne indossano bracciali sui polsi e sulle
caviglie e il canone di bellezza femminile è il seno lungo schiacciato al corpo
da file di perline. Cercheremo la Welwitschia mirabilis pianta endemica del sud
dell’Angola e della Namibia che cresce di un millimetro l’anno e vive circa
1000 anni.
Torneremo passando per Huambo, città dove le aspre battaglie dell’Unita per tenersi la zona ricca di diamanti pluviali, hanno lasciato segni ancora visibile sulle facciate dei palazzi crivellati di colpi di artiglieria. In tutto questo vivremo d’incontri e imprevisti che sono l’essenza stessa del viaggio, ciò che rende un percorso unico, personale e indimenticabile.
La partenza è precipitosa. La sveglia si scorda di suonare e
in 20 minuti raggiungiamo il posto di incontro con la seconda macchina che ci
accompagnerà lungo questo tragitto. Nelle acque paludose di Flamingo, dopo Benfica, incontriamo
il 1° gruppo di fenicotteri rosa e il loro colore è esaltato dal sole del primo
mattino. Passiamo presto il fiume Bengo fra campi di papiri che
sembrano ciuffi di capelli verdi e arriviamo a Porto Hamboim dopo 3 ore di
viaggio. La luce è quella giusta per restare incantati dal blu profondo del
mare e dal verde delle collinette reso più intenso dalle recenti piogge.
Porto Hamboim è un tranquillo paese di case di blocchetti e tetti di paglia, caprette arrampicate sui punti spioventi delle colline e a farci compagnia ci sono le motorette che sfrecciano da una parte all’altra della baia. Passiamo poco dopo il Rio Keve e arriviamo a Sumbe dove incontriamo una colonna di macchine destinate al Censimento 2014 che qui in Angola partirà il prossimo 15 maggio per fare la conta delle presenze nel paese e valutare le condizioni delle abitazioni.
Poco fuori Sumbe passiamo sul fiume Kikombe in un punto dove
le acque scorrono fra alte gole rosse e in un’ansa del rio si fermano le barche
cariche di caschi di banane destinate a Luanda, da qui in poi trasportate su
gomma.
Alcune donne siedono all’ombra di un grande albero di mango
e si godono il fresco. Parlano solo kimbundu, ma una di loro, giovane, che
porta il nome tatuato su un avambraccio, Tè Tè, con un bimbo sulla schiena, si
fa capire e prima di ripartire ci lancia un bel sorriso.
Affrnontiamo la vasta distesa fra Sumbe e Lobito con i Dire Straits come colonna sonora e sulle note di Once upon a time in the West percorriamo altri chilometri nel cuore dell’Africa e la strada, che qui è una lunga fettuccia nel verde dei bananeti e delle palme, scorre via veloce.
A Lobito arriviamo dopo che la strada si è fatta più stretta
e sullo sfondo si cominciano a intravedere le alture del planalto central. La
città si svolge su una serie di colline brulle e polverose, vecchie cave da cui
si tirava materiale da costruzione da trasportare poi via mare o via comboio.
Le colline diradano poi su una pianura acquitrinosa passata
la quale si accede a una striscia di terra, una penisola, a chiudere in parte
la baia, che assomiglia alla Ilha di Luanda ma con un fascino retrò, un gusto
nell’aver messo insieme le antiche case portoghesi con nuove palazzine basse e
colorate, che danno a questa striscia di terra, la Restinga, un aspetto godibile.
In fondo alla penisola, al centro della rotonda, si staglia il navio Zaire, che la leggenda vuole, fu usato da un giovane Eduardo Dos Santos il 7 novembre del 1961 per scappare con un gruppo di nazionalisti angolani dai portoghesi e fomentare la rivolta che porterà poi nel 1975 alla cacciata definitiva dei colonizzatori dal Paese.
Occorre ripartire e Benguela la passiamo veloci, sta per fare buio e abbiamo ancora molto strada fino a Lubango. La città è bella, le costruzioni sono ancora quelle del tempo delle colonie, si respira l’aria dei tropici, le spiagge sono lunghe e bianche, ma non abbiamo tempo.
Lasciamo qui la strada costiera e ci buttiamo verso
l’interno, non c’è altro modo di arrivare a Lubango. Il buio scende
improvviso. Sono le 6 e 30 del pomeriggio e quello che ci aspetta sono altri 360
chilometri di strada al buio fino a Lubango, cittadina del Planalto che si
trova a 1700 metri sul livello del mare.
Indimenticabile sarà la luna che di punto in bianco apparirà
dal buio più pesto dietro una collina, enorme e gialla come un faro nella notte
africana.
L’albergo è un miraggio alle 11 di sera e il letto una gioia
per le ossa stanche. Al mattino Lubango si sveglia in un tripudio di colori.
L’aria è quella frizzantina della montagna, i viali sono alberati e fioriti. Ci
dirigiamo subito alla Fenda da Tundavala.
Il posto è di quelli che meritano. Sembra di essere sul tetto di un mondo senza confini. Il vento fischia e le rocce vanno giù a picco aprendo una spaccatura di 1000 metri, la ferita che ha diviso l’Africa dall’America, il resto, sotto, sono detriti sedimentati in milioni di anni. Indescrivibile!
Corriamo poi giù da queste altezza verso la provincia del
Namibe e per farlo percorriamo la panoramica e impegnativa strada della Serra
da Leba. Una serie di curve a gomito a picco sul vuoto circondati dagli
strapiombi rossi del planato central che qui finisce tutto d’un tratto.
La voglia di proseguire ci porta fino alla cittadina di
Namibe non prima di aver fatto incontri particolari. Si aggirano su queste
terre aride le popolazioni Himba, che qui in Angola, dove arrivarono dalla
Namibia, loro terra d’origine, sono anche detti Ovahimba. Sono pastori nomadi e
ci vogliono vendere il latte delle loro bestie. Rifiutiamo ma ci accordiamo per
scattare qualche foto con loro.
Resterà impresso a tutti il volto tondo e lo sguardo
profondo della bimba tenuta in braccio da una giovane donna della tribù. Hanno
i seni nudi, stretti da giri di perline e bracciali ai polsi e alle caviglie,
sono socievoli ma quando iniziano a discutere sui soldi e due di loro hanno in
mano maceti scegliamo di andare via alla svelta.
A Namibe ci fermiamo per un meritato tè caldo, un tè nel
deserto, che ci appare più dolce e piacevole di sempre. Pronti per proseguire
nella zona predesertica che precede il deserto del Namibe, alla ricerca dei
quarzi e della Welwitscha mirabilis.
Fra il nulla di queste terre aride ridiamo alla vista della
pianta i cui semi appaiono come enormi escrementi di vacca seccati dal sole.
E’ già ora di tornare, tre ore di viaggio all’indietro di nuovo verso Lubango,
e il tramonto ci coglie quando siamo ancora nel deserto che ora prende tutti i
colori regalandoci sfondi rosa, arancioni, rossi e poi blu intensi
fino al buio della notte.
La cena è a base di carne di jacarè, coccodrillo, è così
buona che non ci dispiace, almeno fino al mattino successivo, quando uno lo
incontreremo nel fiume fra Lubango e Huambo.
Decidiamo, in modo azzardato di cambiare strada e
tornare verso Luanda passando per Huambo ma prima di Caconda ci imbattiamo in
110 chilometri di pista piena di buche dovute alle recenti piogge. Impieghiamo
quattro ore sole per percorrere 80 chilometri ma saranno quelli che ci
permetteranno di vedere l’Africa come ce la siamo sempre immaginata.
La terra è rossa, incontriamo solo villaggi di capanne. Non ci sono pali della luce elettrica, solo qualche raro pozzo a mano per l’acqua, attraversiamo vecchi ponti pericolanti, vediamo un coccodrillo amarello, giallo, rarissimo, sotto al fiume che attraversiamo incerti e tante motorette spinte a mano da ragazzi stanchi ma sorridenti.
A qualcuno sfiora l’idea di fermarsi li, almeno per qualche
giorno, a godersi il tempo, lo spazio, la libertà. Arriviamo a Huambo sfatti
dalla fatica del corpo strattonato e sbalzato continuamente dalla strada
sterrata. Mangiamo un panino e poi via, verso il passo a 2050 metri di altezza
che ci riporterà verso la strada costiera quando ormai è già notte e ancora ci
mancano 500 chilometri per arrivare a Luanda.