Sono ore di tensione e attesa a Luanda quelle che stanno
passando da quando, sabato scorso 1' di Novembre, si è appreso da fonti ufficiali,
che c’è un caso sospetto di ebola nella capitale.
Si tratta di una suora di origini angolane, da sette anni
residente a Parigi, che negli ultimi giorni di ottobre si è recata a Brazaville, a Kinshasa, in Repubblica Democratica del Congo e da lì ha raggiunto la Cabinda, enclave
angolana in Congo, via barca.
La donna si è presentata venerdì scorso all’Ospedale
Militare di Luanda con evidenti sintomi di malattia, in tutto simili a quelli
provocati dall’Ebola e da allora è sotto controllo di una equipe medica
equipaggiata per far fronte all’emergenza.
La donna ha affermato di aver avuto un contatto con un sospetto malato di ebola durante il suo viaggio in Congo. Le sue analisi sono
state mandate in Sud Africa e in questi giorni, in queste ore, si aspetta con
ansia una risposta.
La società è preoccupata in generale e ancora di più lo sono
gli stranieri che vivono a Luanda. La Scuola Internazionale di Luanda, la LIS, sta
monitorando la situazione ed è in “contatto costante” - come ha affermato oggi
il direttore della LIS, Antony Baron, in una lettera ai genitori - con l’Organizzazione
Mondiale della Salute e con le maggiori compagnie petrolifere presenti nel
Paese che finanziano la Scuola stessa, oltre che con il Ministero della Saluta
locale e con l’ente che sta gestendo l’emergenza ebola in Angola.
Una cosa è certa, se il caso fosse confermato, la scuola e
le aziende in cui lavorano espatriati e la nostra ambasciata stessa alzerebbero
il livello di allarme e si potrebbe anche arrivare a una “evacuazione”
degli espatriati.
C’è da augurarsi che questo non avvenga, che la donna abbia solo la malaria, che fra l'altro le è già stata diagnosticata, ma soprattutto, c’è da
augurarsi che in futuro, personale come preti, suore, missionari, operatori di
Ong, organizzazioni internazionali e aziende, medici e infermieri che vivono o
lavorano in Paesi a rischio ebola, riducano, se non azzerino, la loro mobilità,
per evitare che il virus si diffonda ancora più velocemente di come già non sta
avvenendo.
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